La comunicazione libraria ha delle forme ormai consuete, che son quelle il libro di fresca uscita non sia soltanto recensito ma anche "presentato". In una libreria, o altra sede acconcia, tre o quattro relatori possibilmente di chiara fama o comunque versati in quello che è il suo tema specifico intrattengono i convenuti, previa distribuzione di inviti e informazione frutto di appositi comunicati ai media. Che poi ne forniranno in qualche caso anche resoconto. Così è stato stamattina presso la Feltrinelli di Palermo per la pubblicazione postuma di una selezione dell'epistolario di Felice Chilanti, curato dalla figlia Gloria. Ne hanno parlato, oltre a lei, due giornalisti (l'autore di questa rubrica e il presidente regionale dell'Ordine dei Giornalisti Franco Nicastro) e due storici (Francesco Renda, professore emerito di Storia Moderna a Scienze Politiche e Salvatore Lupo, ordinario di Storia Contemporanea a Lettere e Filosofia). E dedico questa settimana lo spazio di questa rubrica a quel nome e alla sua storia con uno scopo preciso.

Chi si ricorda ancora di Chilanti in questa città che pur gli deve qualcosa e anzi molto? Occorre avere una certa età, ma i giovani che non c'erano quando cinquant'anni fa crepitarono al suolo tutti i vetri di Piazza Ungheria per l'esplosione di una potente carica di tritolo sulla tipografia de «L'Ora», dopo l'uscita della quarta o quinta puntata della prima - in assoluto - inchiesta giornalistica sulla mafia (vocabolo allora tabù sulla stampa), firmata da lui e da Mario Farinella, quei giovani no che non possono avere le nozioni necessarie ad acquisire con chiarezza l'importanza di quel fatto. Il titolo della prima puntata era «Dà pane e morte», il titolo di quella che provocò alla fine la spazientita bomba era «Pericoloso!» con sotto la foto, mai prima di allora pubblicata, di Luciano Liggio. E non solo mafia, ma il rapporto mafia/politica era il centro di quell'inchiesta. Fu da quell'attentato e dalla continuazione non intimidita di essa, cui altre sullo stesso tema da parte di quel giornale ne seguirono, che ebbe atto di nascita la tuttora attiva Commissione Parlamentare Antimafia. Primi firmatari del suo disegno di legge istitutivo presentato alle Camere furono Ferruccio Parri e Sandro Pertini e tutti i parlamentari nazionali siciliani della Democrazia Cristiana inutilmente vi si opposero: «inidonea», «incostituzionale», «offensiva per la Sicilia» è una selezione degli aggettivi argomentanti quel pelosissimo no..

Ecco perché è allora invece utile e importante un riattualizzante «Chi è» di Felice Chilanti quale da questo libro scaturisce. In un momento in cui gli epistolari costituiscono per molti un modo del tutto immoderno e anzi invecchiatissimo di esprimersi. Chi è che scrive e scambia più lettere nel nostro incalzante mondo di fax, di e-mail e di messaggi cellulari? Eppure i carteggi privati restano, nella loro spontaneità, documentazione più autentica e sincera - e anche pensata e circostanziata - di tante altre, una volta estratti dai cassetti e dati alle stampe. Io pensavo, prima di leggere questo libro, che di Chilanti, da me conosciuto e con cui avevo lavorato, avrei potuto parlare, come già altre volte avevo fatto, solo nella sua specie strettamente giornalistica. E invece di lui, morto nel 1982 sessantottenne, è l'uomo che balza fuori con visibilità prepotente. L'uomo fatto di sentimenti e di umori, di ingenuità e di sofferenze, di intolleranze e di sospettosa permalosità, anche, qualche volta. E di passione politica in un'accezione purtroppo oggi molto persa di vista, in cui politica cioè coincideva, anche se non per tutti, con morale.

Non c'è solo scambio epistolare, in questo libro, ma comprende anche appunti privati ed altrettanto private poesie. Esso dà sì conto sia del Chilanti giornalista che del Chilanti romanziere, ma anche del militante politico in una sinistra rossa capace sia di appassionarlo che di deluderlo e dell'intellettuale impegnato in conflitti culturali qualche volta disperati però incapaci di sconfiggerlo nell'anima. E anche del Chilanti marito innamorato, padre affettuoso, nonno sentimentale e giocherellone. Esso documenta i rapporti spesso anche polemicamente corruschi con i suoi romani editori politici d'edicola e quelli non semplici con l'editoria invece libraria avendo sodalizio perfetto solo con uno in quest'àmbito, Vanni Scheiwiller, così accuratamente selettivo pur se minore sul mercato. Ma anche lo scambio intenso e reciprocamente estimatorio con altri scrittori e poeti finissimi che l'ufficialità letteraria emarginava (Pizzuto, Marin). E inquadra i momenti delle sue grandi e clamorose inchieste civili per "Paese Sera" e "L'Ora" e quelli di autobiografo in forma di romanzi, costruiti con uno stile personalissimo, sincopato e fuori dalle righe in modo sincopato, mitragliante e talvolta anche danzante da cui emergono la pur rappresentativa singolarità della persona che un viluppo generazionale, e l'amore per i luoghi.

Scriveva come quando uno va a cavallo: passo, trotto e galoppo. Ho trovato anni fa, riordinando carte nelle mie scrivanìe, i fogli originali di un paio di suoi articoli da me a suo tempo passati in tipografia, i quali consentono un'immagine di lui che oggi il computer non permette più d'avere di nessuno. Erano fogli che dopo l'ultima riga estraeva dalla macchina da scrivere e subito ripassava con la stilografica, riempiendo quasi tutti gli spazi fra una e l'altra con altre frasi, con nuovi aggettivi, con incisi sciabolanti, finché quel foglio era diventato come un oggetto decoratissimo alla vista. Lui era già scomparso da tempo e io, dopo aver esitato se incornciarne un paio come fossero estetiche radiografie d'un processo creativo, li spedìi a sua figlia Gloria proprio perché mi pareva più giusto li possedesse lei.

Racconto un episodio di lui, piccolo, terra terra ma significativo. Uscivamo una sera tardi dal'Ospedale Civico dopo aver visitato un collega degente e, passando per fare più presto dal Pronto Soccorso, assistiamo alla scena di uno che tentava di entrare, respinto da un infermiere in quanto non parente del ricoverato che egli voleva vedere ma solo suo compagno di lavoro. Lui se ne disperava e insisteva, ma inutilmente. Felice, che era già era da qualche anno privo della voce dirò più avanti in seguito a quali circostanze, usò il modo di comunicare che aveva di necessità assunto come conseueto: taccuino e biro, velocissimo, strappa e mi dà il foglietto su cui c'era scritto «Digli che lo faccia passare». Con un punto esclamativo enorme. Lo faccio, ottenendo diniego a mia volta, ma in quella spunta un agente di PS (in quegli anni in ogni Pronto Soccorso ne stazionavano sempre anche due). Gli dico chi siamo e lui, con un moto del capo proiettato verso l'ingresso, quell'infermiere lo fa arrendere. Che senso ha, ci si può chiedere, la citazione di questo aneddoto così minimale?

Ha il senso di evidenziare la percezione acutissima che egli aveva dell'ingiustizia. La stessa che esercitava, a livello più alto, anche nelle sue inchieste. Come nei servizi, per esempio, che pubblicò su «Paese Sera» di ritorno dall'Unione Sovietica e che, per tutte le storture costatate che vi aveva con sgomento registrato, provocarono reazioni brutte dall'interno dello stesso partito cui era iscritto. I carteggi formicolanti polemica e talvolta anche scontro che questo libro racchiude con Amerigo Terenzi, Giancarlo Pajetta, Giorgio Napolitano sono testimonianza del fino a che punto fosse priva di peli la sua lingua. Che personaggio, Terenzi. Grande editore, colto e scorbutico, però più d'una volta risultato di passo più lungo della gamba. E il cui pragmatismo non si poteva assolutamente incontrare con l'idealismo (che oggi pare addirittura una brutta parola) di Chilanti. Lui era un incontenibile alza-siparii e il suo nome coincide con eventi giornalistici clamorosi. Il direttore di «Paese Sera» Fausto Coen, da me intervistato per una relazione che dovevo fare a Rovigo (sua terra d'origine) nel decennale della sua morte, mi scodellò senza mezzi termini quanto quel Chilanti cosiffatto fosse stato essenziale nel costruire la fortuna di quel giornale.

Ecco perché è così interessante venga letto un libro come questo oggi. Proprio per lo sguardo retrospettivo che consente su un'Italia i cui problemi già potevano far presagire quelli di oggi ma che non allo stesso modo di oggi venivano affrontati, o era comunque possibile che venissero affrontati. Oggi la politica vive per così dire alla giornata, le è venuto a mancare quel che di nobiltà che ne dovrebbe essere coefficente indispensabile, e alla progettualità delle parti manca uno spessore che sia consistente. Lasciamo stare De Gasperi e Togliatti, statisti grazie ai quali abbiamo avuto questa Costituzione sulla quale oggi si opera con logica di banda per invertirne il senso e le prescrizioni, ma fu un momento alto anche quello in cui si incrociarono Moro e Berlinguer giganteggiando snz'altro anch'essi a fronte dell'odiernità, posto che con Berlusconi e D'Alema siamo arrivati al teatrino delle marionette o al cartone animato di Hanna & Barbera, serie Tom e Jerry. E se Chilanti si sentiva a disagio anche all'epoca di un Longo e un De Martino, come si sentirebbe in un momento in cui i partiti della sinistra (ma anche gli altri) hanno come ua paura delle proprie origini e della propria storia e si camuffano dietro simboli estratti dal mondo vegetale e sia la destra che la sinistra hanno bisogno di agganciare tale denominazione alla parola «centro» come per l'incongruo pudore del non sentirsi nudi?

E allora vien fuori che un giornalismo alla Chilanti oggi è divenuto impossibile. La sua sconvolgente inchiesta sull'Italcasse presieduta dal senatore dc Arcaini che tanta bufera provocò (e questi non fini i suoi giorni in carcere solo perché deceduto nel corso del processo) non rappresenta forse l'esplosione di Tangentopoli con quarant'anni di anticipo? Eppure su Tangentopoli, quando saltarono poi finalmente (ma non per sempre) le condotte di tutte le fogne, sono forse inchieste giornalistiche che ci è stato dato di leggere? Ma no, i giornali ci hanno raccontato inchieste che era, e ne ringraziamo comunque il cielo, la magistratura a fare. Il giornalismo d'inchiesta che a Chilanti han fatto svolgere Coen a Roma e Nisticò a Palermo oggi sarebbe davvero impensabile. Un giornalismo cioè da Don Quijote lucidi, sapenti ben distinguere tra mulini a vento e concrete strutture antisociali, pagando magari prezzi non patetici come quelli del personaggio di Cervantes ma molto più drammatici.

Oggi che Scienze della Comunicazione è diventata una delle insegne più fosforescenti della nuova araldica universitaria, e che gli studenti si laureano, sia pure imperfettamente, anche in Giornalismo, io ho pensato subito a Chilanti in un'occasione recentissima. Ho sul tavolo per ora tredici faldoni che si incrementano dei materiali laboriosamente in progress di altrettante tesi di laurea (mi crescono ogni anno, sono troppe e ho cominciato a declinare le meno interessanti per non giungere a non poterle governare tutte per mancanza di tempo e di testa) e le più intriganti sono quelle che inseriscono in quella di massa la comunicazione attraverso il cibo, o l'abbigliamento, o l'olfatto o i comportamenti del corpo. Ma ho ricevuto - finalmente - l'altro giorno anche una mail d'un mio studente di Trieste che me ne propone una sulle giornalistiche inchieste-monumento degli anni Cinquanta e Sessanta nel nostro Paese e sul perché dei mecanismi sociopolitici per i quali esse sono sparite ormai da gran tempo dal nostro orizzonte, e mi chiede guida nell'indagare ciò. Bene, sono proprio ed esemplarmente Felice Chilanti e i drammi venuti lentamente imbavagliando la sua professione che io gli chiederò di mettere al centro di questa sua ricerca e della sua analisi.

Perfino in questo libro c'è anche tutto un tessuto di carteggi che contengono in sè per rivelazioni di background già come il layout di un'inchiesta sui nostrani premi letterari (procedure e presupposti reali della loro vincibilità) esemplificato proprio sui percorsi e sugli scogli incontrati nel perseguirli dai romanzi che Chilanti scrisse. Nel tirocini di Facoltà gli studenti, mestamente lo so, chiamano "inchiesta" una paginetta e mezza, a anch meno, con quattro numeri, due dichiarazioni e un'intervista-lampo e nessuno gli dice di quanto così sian fuoristrada. Per un'inchiesta occorrono una pazienza ed un esercizio d'acume protraentesi anche per mesi e producenti un sacco di puntate proponenti inediti e testimoniati oggetti di condotta. Ed è a questo proposito che voglio anche richiamare come da un tale epistolario emerga con spicco pure ciò che gli fu tragedia umana e professionale di gran travaglio, cioè la precoce e chirurgica perdita della voce in seguito a un male che ne troncò la capacità comunicativa necessaria a un inviato ma lo seppe condurre a valorizzarne un'altra, più adatta a pagine di libro piuttosto che di giornale. Eccellendo esemplarmente anche in essa. Questo volume fatto soprattutto ma non solo di lettere ci espone insomma la storia di un uomo animoso, intelligente e pulito, lucidamente battagliero, caratterialmente difficile come tutte le personalità vigorose sono, e insieme però, e lo rimarco ancora, un vero ritratto epocale italiano acuminatamente visto da dietro le facciate.

Se occorre, infine, di siglare con un epitaffio tutto il fin qui in questa sede detto, a sua conclusione, vedo questo come il più pertinente: che il vero giornalismo, quello fatto cioè con l'anima e non con spirito impiegatizio, non può che essere sempre, e soprattutto, controinformazione. E non solo quando si tratti di mafia. Grazie infinite, Chilanti carissimo. Chissà che non ci si possa riprovare ancora, più in là. Perchè non è mica la materia che neanche adesso manca, bensì le condizioni e le circostanze per poterla usare.