Abbiamo fatto, nella precedente rubrica, una superficiale ma poi non tanto carrellata relativa alle cosiddette variabili semantiche che possono talvolta inficiare i processi comunicativi. E, rileggendola, ho pensato che poteva valer la pena di darle un seguito che ne specificasse meglio qualche aspetto. Scegliamo allora due modi particolari di usare la "macchina delle parole" e confrontiamone sostanza e aspetti; allargandoci magari, per maggiore comprensione, a qualche altro. Il linguaggio del giornalista e il linguaggio del filosofo - gli stessi che avevo messo sotto osservazione nell'occasione precedente - sono senza dubbio sufficientemente diversi per servire a questo scopo. E allora, punto di partenza è quel che segue. Il gestore del primo s'è abituato a usare la propria lingua madre in modo che chiunque compri il suo giornale capisca quello che scrive. Il filosofo invece, come del resto anche il romanziere o il poeta, avendo bisogno di usare le parole per costruire una scalinata di concetti il primo e di evocare immagini e sentimenti il secondo e il terzo, finiscono col fabbricare ciascuno un linguaggio proprio.



Quelli che frequentano scrittori un po' alla volta imparano che quando Camilleri scrive «una trentina» non intende riferirsi nè a un numero approssimato di qualcosa né a una cittadina di Trento, bensì a una donna massimo sui 35/36 anni. Quelli che frequentano i poeti sono molti di meno ma un po' alla volta imparano anch'essi che, per esempio, «aere» è spesso usato per dire «aria», «cielo», «atmosfera», qualche volta anche «senzazione», a seconda. Quelli che frequentano i filosofi, che sono a loro volta ancora assai di meno, possono anche incontrare improvvisamente parole come «Weltanschauung» e lì si trovano a sbattere. Perché non esiste un termine italiano che a questo vocabolo tedesco corrisponda con la metafisica particolarità, oltrepassante il suo insufficiente significato letterale, quale fu definita da una corrente di filosofi - Dühring, Gomperz, Dilthey - fra metà Ottocento e i primi del Novecento. (Detta in spiccioli si tratta di una concezione mobile del mondo attraverso le sue variabili culturali/epocali, ma in realtà è qualcosa ancora di più complicato di così). Talché o siamo costretti a dire sinteticamente weltanschauung anche noi, con tutte le sue buffe due "u", o a ricorrere a difficoltosi giri di parole nella nostra lingua. Così come non si può pretendere da chiunque (anche se magari inconsapevolmente e con elementare rozzezza la esercita sia su di sè che verso l'esterno) che afferri con autentica pienezza il senso di cos'è «gnoseologìa» o che penetri addirittura il perché, più o meno da Cartesio in poi, essa sia invece riconosciuta - e non è una sfumatura da niente - col nome invece, così ancora più difficile, di «epistemologìa». Disciplina, più che scienza, la cui caratteristica basilare è quella di una interdisciplinarietà totale.

Persino «universali», al plurale e con il «gli» davanti, pur essendo parola conosciuta da tutti (una chiave universale, il diluvio universale, le Esposizioni universali, la Universal Pictures International, la stessa Università, ecc. ecc.) è un termine che usano i filosofi per definire proprietà, valori, prescrizioni, che sono tuttora oggetto di ricerca e non sono il semplice superlativo di «mondiale» o «planetario». Io non sono certamente il solo non-filosofo che di questo termine ha chiarissime le concettualità e le valenze che il dibattito filosofico gli attribuisce, in quanto faccio parte di quel ceto che avendo maneggio intellettuale continuo per vocazione e professione, l'ha incontrato già tante di quelle volte da saper benissimo di che si tratta. Quindi non è che non capisco, o che giudico negativamente, oppure come persone strane, chi se ne fa bussola e faro inderogabili. Peraltro ahimé pochissimi e per questo meritevoli, anzi e casomai, di legittima aureola e odore, come si dice, di santità (se tale qualifica può essere anche laicamente intesa). Mi si scuserà se uso a questo punto la prima persona singolare, ma è solo per artificio retorico motivato da comodità espositiva. Io semplicemente, questi che per convenzione si chiamano «gli universali» (e andrebbero, per capirci, identificati nelle icone categoriali del Vero, del Bene, del Giusto, del Bello, e nell'indissolubile binomio Dignità/Libertà) li traduco anche in comportamento ogni volta che lo ritengo, nei miei rapporti col mondo e le persone, possibile e non creante complicazioni in qualche modo dannose. Però, insomma, attraverso spesso la strada senza camminare sulle "zebre", pago spesso in ritardo le tasse, dissento da chi sostiene il pleonasmo di una giustizia giusta, posto che quando c'è non è mai sbagliata, ucciderei sparando per primo a chi sta per gettare una bomba in mezzo a una folla, e sarei invece disposto a mettere io una bomba sotto la sedia o il letto di un tiranno per cui sia regola anche assassina la privazione della libertà a me e alla mia gente. Assicurandomi comunque di non coinvolgere nella sua sorte altri oltre, se casomai mi bèccano, me stesso.

Considero la libertà civile il bene più prezioso che ci sia, ma voglio, volterianamente, che quella di A non oltrepassi il limite oltre il quale si lederebbe quella di B. E penso che la bellezza non sia riconoscibile da tutti - anche se mi disgustano coloro che non la ritengono importante - e che in estetica il soggettivo e l'epocale determinino apprezzamenti molto variati cui non so negare liceità. Non avrebbero diritto d'esistere se no i critici, come esperti, anche se non artisti, delle varie arti, e verrebbe difficile concedere cittadinanza alle scienze ermeneutiche (in soldoni: interpretative). Un giornalista baderà, a differenza del filosofo, a non inserire mai una parola come appunto «ermeneutica» in un suo articolo, così come non dirà mai «apoftegma» in luogo di «motto». Ma neanche dovrebbe, p. es., stando dietro ai politici, usare «bipartisàn» invece di «consensuale» quando su un atto o documento convergono due parti per natura solitamente contrapposte. E ciò sia per la bruttezza della parola sia per la contraddizione in cui essa si storce. Ma tant'è, non si può pretendere tutto.

Tornando agli universali, dopo il discorso sui loro contenuti cui siamo stati per completezza condotti, non si può comunque non notare come si tratti di categorie che non fanno solo gola al filosofo ma del cui di continuo nominarle lo stesso giornalista è abbastanza prodigo. La parola «verità», sui giornali, è spesso spesa con imprudenza, e la parola «bellezza» con futilità, per non parlare della frequenza non sempre appropriata del seminare nei titoli le parole «giustizia» e«ingiustizia» e gli aggettivi che ne derivano. Gli "universali" sono preminenti in filosofia come valenza assoluta, e invece molto spesso fin troppo particolaristicamente spesi in sede giornalistica. Sarà mai possibile, adoperando questi termini, chiamarsi fuori da questi due estremi? Sulla loro riconoscibilità i filosofi si accapigliano spaccando i capelli in quattro e sparandosi reciprocamente bordate di sillogismi e di sofismi; e sul loro sovrabbondante uso nei giornali ci sarà qualche volta pure malizia o partigianeria, ma il più delle volte, andiamo, si tratta di semplice, ma insieme sconveniente e facilistica, retorica. La retorica, nei titoli, è sempre un errore, perché è proprio la caccia al superlativo a costituire errore. Errore nel compito di descrivere. Ci cascano di più le pagine sportive, ma anche la politica e la cronaca nera non scherzano. Che bello un titolo di colore! Ma il colore va dato col pennello e non si getta col mastello. E' più facile, per dire, trovare in un titolo l'aggettivo «splendido» che quello «carino» o «grazioso». Eppure non vi sembra, guardandovi in giro, che le cose solo «graziose» sono assai più di quelle «splendide»? E fanno notizia anche quelle. O no? Una volta i quotidiani avevano otto o dodici pagine e i settimanali una quarantina e c'era, più sobriamente, tutto, dall'importante al minimale. Oggi i primi arrivano anche a sessantaquattro e i secondi anche oltre le duecento, ma si fa largo in esse solo l'eclatante. O ciò che eclatante si fa diventare.

Siamo sinceri, la comunicazione, affollandosi, ci ha guadagnato oppure ha perso in chiarezza?