Grammatica: "L’insieme della struttura interna di una lingua e della sua tradizione grafica". Così il dizionario di Maurizio Dardano; ma quello di Giacomo Devoto e Giancarlo Oli amplia di molto, e secondo me giustamente, l’accezione di questo termine. Definendolo: "L’insieme delle convenzioni che dànno stabilità alle manifestazioni espressive". Sto con lui: anche un oggetto televisivo può avere una propria grammatica, ed essa può cambiare. E se cambiare grammatica significa adottare regole espressive differenti, usando dunque un altro linguaggio e avendo una diversa scala di referenze, è col tempo possibile diventare, al limite, una tutt’altra cosa pur mantenendo i requisiti nominali di quel che s’era. E’ accaduto al Festival di Sanremo. Essendo evento recentissimo e fresco alla memoria generale esso può essere bene adoperato per esemplificare una certa tipologia di mutazioni che percorrono in atto la nostra postmodernità e che ricadono in un’area caratterizzata dal fenomeno - enfiante e sempre più trascendente - dell’"autoinfluenzarsi": quello della comunicazione. La nuova Dea cioè che ha, sfrattando ogni predecessore, occupato l’Olimpo con ferrea egemonia onnidirezionale. Comunicare infatti "necesse est", oggi, al di là di ciò che si comunica. Dell’artato, cioè, come del futile (l’aveva già detto Paul Watzlawick ma, se ci stiamo attenti, in altra accezione).
Sanremo, dunque. Già "Festival della Canzone Italiana" e oggi "Catalogo Generale di Showcommunications". Cos’è successo, cosa gli è successo? Esploriamo questa parabola, lunga 52 anni, appunto per esplorare un cursus di cambiamenti che poi alla fine non è stato caratteristico solo di un concorso vocal-musicale ma è spaziato in ogni campo, da quello dello sport a quello dei consumi alimentari, da quello dell’istruzione a quello della selezione del personale politico. Eccetera. Ma noi analizzeremo solo alcuni particolari di questo, appunto perchè l’esempio è facile e il riferimento agli altri potrà anche venir poi da sè.
Sanremo erano i cantanti, le loro voci, parole e musiche. Poi uno vinceva, qualcuno più d’una volta, e adesso invece il nesso produzione-mercato impone separazione per categorie perchè i vincitori siano di più: è agonismo distributivo ma accade anche, da tempo, nelle mostre del cinema e nei premi letterari. Non c’era la televisione, quando nacque e le sue prime edizioni le abbiamo ascoltate alla radio. La Nilla Pizzi, per dire, era la sonorità calda della sua voce, non era poi così importante ne possedessimo insieme pure le fattezze. Ma quando, poco dopo, la tv arrivò, occorse per forza appagare pure l’occhio e del resto gli stessi cantanti colsero subito la necessità di caratterizzarsi aggiuntivamente per via visuale: uno come quel dimenante ragazzo Celentano bisognava anche vederlo, insomma. In bianco e nero, naturalmente. Nato e piaciuto senza le telecamere, oggi però Sanremo senza le telecamere neppure sarebbe concepibile, avrebbero già smesso da tempo di organizzarlo. E’, e c’è una logica, una delle più fantasmagoriche caselle ammiraglie del palinsesto Rai che anzi, appropriatasene, stabilisce lei ogni anno come dev’essere.
E com’è, adesso? Vogliamo guardare i giornali e capirlo da lì, dai loro titoli e dalle loro foto? Sì, c’è sempre il concorso, supercolorato adesso, e ci sono i concorrenti che vincono, ma le canzoni non sono più esse in primo piano e i personaggi che contano non sono più i cantanti bensì coloro che li presentano e che tengono il palco, da soli o con i loro ospiti, per un tempo divenuto dilatatissimo e durante il quale si esibiscono anche nel ruolo di tramiti pubblicitari; agli ospiti, tutta gente di share, fanno fare cose anche divertenti, fanno domande commercialmente calcolate, e qualche volta, se per esempio è Benigni, ne diventano magari giocattolo e fanno, ehilà, avanzamento di costume. Chi presenta, infine, dev’essere "assisistito" da qualcuno, in genere una coppia di figure polarizzanti attenzione molto più di quanto possano fare Gino Paoli o Mino Reitano, dai quali anzi i riflettori vengono deliberatamente distratti a pro di queste: in genere sono attrici o top models aduse ai riti della "nudatio mimarum", ma possono essere anche premi Nobel (Dulbecco) o ex capi di stato già detentori di potere mondiale (Gorbaciov due anni fa, p.es., ma anche Clinton era stato desiderato) Insomma "Sanremo è sempre Sanremo" recita il suo slogan-tormentone, ma non è vero.
A cosa serviva Sanremo? A decidere spettacolarmente chi era più bravo. A cosa serve ora? I cantanti sono più in ombra: la gara a chi lo condurrà quest’anno appassiona di più le prime pagine della vigilia, le vallette hanno più foto e più copertine degli artisti, son lì per avvenenze già mostrate altrove e per essere ulteriormente trampolinate, gli ospiti non sono neanche più altri cantanti famosi, magari stranieri, ma sono attorcomici o macchiettisti che fra un cantante e l’altro devono offrire ampio spazio di intrattenimento, come se i cantanti non bastassero più. Comanda, cioè, la pubblicità, che deve ora avere anche qui i suoi strategici inserti e per essi ha bisogno di un contorno della maggior rutilanza possibile. E neanche il "commerce" discografico coincide più coi premi, perchè la seconda arrivata, uniquique suum, già da subito vende più del complesso vincitore e l’imperterrita Pravo continua ad andare a gonfie vele pur essendo finita agli ultimi posti. Insomma non è più un concorso, è una rassegna-contenitore mirata ad altri obiettivi, in omologazione perfetta con tutti i teleshows. La tendenza a trasformare i modelli in stereotipi (d’affari) è implacabile.
E adesso, non per essere minimalista, ma per condurre anche sui particolari degli esempi di trasmutanza, ne vedo proponibile uno riguardante - chiamamola brutalmente così - l’acustica. Che è sempre stata elemento rilevante nella costruzione dei teatri, dagli anfiteatri ellenici scavati in pendìo di collina perchè il suono rimbalzi a quelli chiusi con naturale megafonìa di boccascena. Anche gli studi televisivi hanno requisiti acustici nei materiali di cui sono rivestiti. Ma gli exploits architettonici ed i barocchismi scenografici sembranti indispensabili agli odierni shows - chi ricorda com’era scarnamente semplice il mitico "Studio Uno" di Antonello Falqui che bastavano la longilinea, allora, Mina o la micidiale scherzosità di Walter Chiari a ravvivare e render scintillante? - li modificano talmente che senza microfoni sei perso. E così chi canta se lo appoggia praticamente sotto il naso tenendolo in mano (e se non lo inquadri di profilo ne resta nascosta la bocca mutilandone l’espressione facciale), e chi parla si deve agganciare una cimicina all’alto dell’abito e talvolta con certi decolté non si sa neanche bene dove metterla; oppure, come Gigi Proietti che deve gesticolare, occorre l’imbarazzante supporto laterale che ti fa subito pensare al pilota d’aereo o alla centralinista telefonica. Tutta roba (è chiaro che non lo dico da nostalgico, anche se visualmente devia pur essendocene abituati, ma semplicemente da osservatore) di cui nessuno aveva bisogno prima, quando i cantanti avevano diaframma e polmoni e non erano, come in realtà ora spessissimo e va bene pure, dei dicitori ritmici anche sommessi.
Forse non tanto per l’orecchio ma per l’occhio certamente sì tuttociò costituisce differenziazione di codici comunicativi, dunque variazione di linguaggio e infine cambiamento grammaticale, essendo come si sa le grammatiche composte di morfologia e sintassi. L’insieme è certamente un po’ più miscellaneamente confusionato e procede per alternanze e sbalzi, cosicchè si avverte anche spessissimo uno sfasamento di ripresa: stacchi e movimenti delle telecamere risultano spesso intempestivi o fuori tempo sulle uscite, p.es., dei personaggi talvolta perchè l’estemporaneo induce difficoltà di regìa, talvolta per lo stesso tipo di sciatteria voluta che corrisponde agli strappi e alle lacerazioni che ormai sono decorazione di jeans. Ed è linguaggio e sono dunque forme di innovata grammatica comunicativa anche certe modalità comportamentali. Mi riferisco a cose di vario genere cui aveva da tempo fatto da battistrada lo sdoganamento della "parolaccia", ormai defunta come tale e divenuta lessico corrente (il semiologo registra e non si scandalizza, se no che scienza è?), e che vanno dagli assalti plurimi condotti con le mani all’inguine del presentatore alla giurata che prima vota e poi alza l’avambraccio a pugno chiuso sbattendoci nella piega la palma dell’altra mano, alla Pattypravo che, ancora lei, arriva in scena masticando e si toglie di bocca il chewing prima di cantare attaccandolo al gambo del microfono.
Non sono, dicevamo, evoluzioni di linguaggio che riguardano solo lo spettacolo ma anche altri comparti della ordinaria vita di comunità Che vengono, appunto, intrecciando le loro grammatiche lungo il percorso di aggiornamenti linguistici un po’ omologanti e un po’ ibridati. Così che lo sport si trasforma in business, è la pubblicità e non la dietetica a guidare la nostra alimentazione, le offerte didattiche acquistano parvenze di supermercato, e perfino la politica se non si caratterizza come spettacolo rischia di fallire i propri scopi. Insomma sono molte, e non solo l’inglese, le lingue (o neolingue) che adesso dobbiamo imparare.