Un paio di settimane fa ho fatto un rapido andirivieni aereo su Trieste per partecipare a una tavola rotonda cui ero stato invitato con altri esponenti della mia professione. Organizzata dalla Cgil, aveva come tema i rischi che corre attualmente l'informazione nel nostro Paese. Credo che riferire in sintesi alcune delle cose che lì ho detto possa avere valenza anche in questa sede. Gli altri interlocutori hanno centrato i loro interventi su quelli di carattere politico, ma io di tipologie di rischio non ne ho indicata una sola bensì, compresa beninteso la detta, tre. E ne dò conto qui di seguito.
Il primo consiste in ciò che han detto tutti: è il più evidente e il più facile a individuarsi. Hanno origine politica infatti sia l'omogeneizzazione degli indirizzi e della gerarchia delle notizie nelle testate televisive sia la contrazione dello spazio di opinione al loro interno (nessun direttore Rai, reti pubbliche, osa più esporsi in un "editoriale", si moltiplicano gli interventi censori). Né è ininfluente il fatto, così fuori dai princìpi, che il capo del governo sia contemporaneamente il tycoon monopolista delle maggiori reti private. Per quanto riguarda poi la carta stampata, le caratteristiche proprietarie delle testate sono sempre più connesse ad aree economicamente interessate ad altri campi produttivi, dei quali l'editoria diviene funzione, e all'invasività gestionale del mercato pubblicitario (in cui la persuasione conta più della testimonianza). Anche la redazione della più grande e storica delle testate italiane, il «Corriere della Sera», sta vivendo in questi giorni momenti di nervosa agitazione per cercar di decifrare i prodromi di nuovi, imprecisati ma supposti, ingressi nel suo azionariato. Si comprano così per gli stessi motivi anche le squadre di calcio.
Il secondo rischio proviene invece dall'interno stesso della professione. E ha due caratteristiche distinte, che potremmo definire una di tipo "partisan" e una di tipo "impiegatizio", e derivano soprattutto dal modo in cui si diventa oggi giornalisti qui. A differenza del giornalismo americano in cui, sia pure attorniati da molti altri difetti, trovano soprattutto premio la personalità individuale, il senso della notizia, la fantasia espositiva, quello italiano preferisce premiare anzitutto la fedeltà e la capacità di non creare fastidi. Così in televisione si entra per predimostrata appartenenza a lotti di schieramento e nei giornali solo se sei pronto a far quel che ti diranno anche al di fuori del contratto di lavoro e anche, ma ti guarderai dal dirlo, se non sei d'accordo. Il che è esattamente il contrario di ciò in cui questo mestiere consiste, e anzi in molti giornali esso addirittura si disimpara.
Il terzo dei rischi è quello tecnologico. E ha a sua volta due aspetti. Uno generale e uno particolare. Il generale sta soprattutto in rete. Già in edicola e nella tv l'offerta aveva da tempo superato enormemente la domanda ingenerando, sotto l'imbellettatura grafica e pubblicitaria e la sovraesposizione del futile e del grossolano, acriticismo e confusione di valori. L'on line è come un menu di ristorante che fosse tanto lungo da srotolarsi fino oltre la soglia del locale, fino a renderti impossibile una scelta ragionata di ciò che ti piace o meno, di ciò che ti fa bene o invece ti sganghera lo stomaco. Troppo spesso, navigando, ti devi fermare a caso e solo "credi" di essere informato. Il particolare sta in redazione ed è quello di lasciarsi imporre l'assuefazione al desk come sistema di regole ingessate cui è proibito sottrarsi, alla faccia della creatività. Assoggettando poi a regole anche i contenuti, la cui progettualità e la cui espressione sono imposti come omologanti. Sì che venga ritenuto un redattore perfetto chi docilmente, meglio se abulicamente, ci sta. E che il modello divenga così non tanto il Jeeves di P.G.Woodehouse, che comunque ogni tanto il suo scatto di autonoma fierezza lo aveva, quanto il Babbitt di Sinclair Lewis.
Sono solo "rischi", intendiamoci, quindi abbiamo parlato di trend e non di realtà già compiutamente in atto. L'Università, ai suoi studenti di giornalismo, deve solo insegnare che questa professione è volta ai lettori/spettatori /ascoltatori e non agli editori e ai loro retrostanti. In America, almeno, la insegnano così.