Muore il senatore a vita Giovanni Agnelli e sotto ogni testata giornalistica sono grossissimi titoli in tutte le parti del mondo. E pagine su pagine di servizi. Ok: a capo di un'industria leader (fino a poco fa: è spirato un attimo prima che l'azienda si dissolvesse) nel campo della motorizzazione, autorevolissimo e scaltro mediatore di economia e finanza e suggeritore politico di governanti, in familiarità con tutti i presidenti americani ed altri capi di stato, principe del jet-set ed ex play-boy di gran spicco, animatore sportivo nel calcio e nella vela, colto, bello, affabile e spiritoso. Un tycoon poliedrico sulla scena da cinquant'anni. Quanto basta a giustificare tutto lo spazio e tutto il tempo dai media dedicato a questo luttuoso evento e alle conseguenze che ne provengono. Gli Agnelli di Torino, leggiamo un po' dappertutto - ma si diceva anche prima - erano la vera Casa Reale italiana. E, nel mondo, Agnelli-Fiat-Italia è stata praticamente una catena fatta di tre sinonimi. Nei titoli dei nostri quotidiani da quanto tempo leggevamo «Gianni Agnelli»? Intendo Gianni al posto di Giovanni, come è tornato rispettosamente ad essere solo nella bara. E se fosse stato solo per la necessità che le frasi di titolo siano composte del minor numero di lettere possibile ne avremmo avuto altri esempi, ma invece mai nessuno nei media ha osato immaginare di accettare il famigliare Leo per indicare Leopoldo Pirelli (per restare in quest'area) o Rico per Enrico Mattei. Sì, quest'ultimo veniva chiamato «l'ingegnere», così come Agnelli «l'Avvocato», ma per lui l'aggettivo era ineludibilmente con l'iniziale maiuscola. Ecco, poi poteva anche possedere la dose di cinismo che sempre distingue questo genere di manager, ma io ho allineato qui una serie di elementi che sono tutti indici di popolarità. Non occorre essere anche amati per essere popolari, basta la notorietà con cui persone così sono in una certa misura anche arbitri ed influenzatori della tua vita. Ma perché io ho connesso nel titolo di questa rubrica che sto scrivendo adesso l'evento della sua morte con una tappa significativa lungo il processo mutante che attualmente caratterizza il mondo della comunicazione?

Per un motivo tutto particolare, che riguarda i giornali italiani e il rapporto, che è centrale nei miei corsi universitari di quest'anno, fra supporto cartaceo e supporto on-line delle varie testate. Non sarebbe stato così se questo illustre personaggio fosse morto alle otto di sera o più tardi e non alle otto di mattina. Lungo la giornata, ordinariamente, sono visibili in Internet le edizioni della stampa andata in edicola quel mattino. Ebbene stavolta le versioni telematiche di tutti i quotidiani hanno anticipato, invece di rincorrerle, quelle stampate. E come fare diversamente, una volta che le rotative con quel materiale avrebbero "girato" soltanto nel corso della notte seguente? Certo, ci sono dei precedenti di notizie con determinato coefficente d'interesse che ci vengon pòrte dalle edizioni on line dei giornali anche in tarda mattinata, di pomeriggio o sera, prima che le troviamo l'indomani mattina sviluppate e commentate sul quotidiano di carta. Ma stavolta c'era da coprire un giorno intero su un fatto così gonfio d'importanza in sè, ma anche di risvolti e connessioni, prima di poter andare in edicola; un giorno durante il quale intanto su di esso ci avrebbero ballato, ora dopo ora, tutte quante le emittenti radiotelevisive.

Era successo, per dire, anche con le Twin Towers di Manhattan, ma per fuso orario noi s'era al primo pomeriggio, l'arco di tempo scoperto era ridotto alla metà, e si trattava soprattutto di immagini. O con l'assalto ceceno al teatro moscovita, che però invece era ad orario di spettacolo serale e poi si trascinò tre giorni fino alla "strage degli innocenti" decretata dal governo. Il dato che isola invece ciò di cui ci stiamo occupando, e porta un gradino più avanti il trend mutante della nostra informazione, è che questa giornata HA DOVUTO essere riempita TUTTA da servizi, cioè da cose scritte, e senza attendere di poter mandare in tipografia la sera le pagine da stampar di notte per l'indomani. Il medium alternativo, e più tempestivo, c'è già: occorreva dunque usarlo in pieno, al massimo. E così le redazioni hanno dovuto affrettare l'orario a produrre testi, si è fatto immediato ricorso agli archivi, si son fatti uscire senza perdere altro tempo tutti i «coccodrilli» dai cassetti nei quali eran pronti da tempo, perché da tempo l'uomo Fiat era gravemente malato e volava su e giù dagli Usa per curarsi. Coccodrilli sono in gergo giornalistico - e vengono, impietosamente, dal noto modo di dire «lacrime di...» - tutti quei materiali biografici, d'inquadramento, di commento, che si preparano in anticipo quando s'attende che qualche anziano importante (o non anziano ma malato) possa lasciarci da un momento all'altro.

Per tutta la giornata di venerdì il «Corriere della Sera», «Repubblica», «La Stampa» (di cui Agnelli era proprietario e che sabato mattina è uscita listata vistosamente di nero abolendo per un giorno l'azzurro e l'arancio che sono il suo identi-kit impaginativo, i suoi colori araldici) e anche gli altri hanno rovesciato nelle loro rispettive pagine Internet tutto quanto era possibile immettervi; comprese foto e filmati. L'indomani, a stampa, sarebbe stato tutto riprodotto, oltre che arricchito di più calme aggiunte. Insomma, è accaduto, massicciamente, per la prima volta, l'esatto contrario di quanto accade fin qui.

Cosa ricorda, e cosa prefigura, tutto questo? Una volta, quando la televisione si limitava a vagire, i giornali, in casi del genere, facevano le «edizioni straordinarie». Sulle notizie brevi al massimo integrate da cronologie e "dichiarazioni" che venivano dalla radio, facevano irruzione già in tarda mattinata, non in edicola ma sventolati per le strade e nei ritrovi da esagitati «strilloni» appositamente ingaggiati, i numeri ristampati di questo e quel quotidiano con la prima pagina rifatta e pagine e pagine aggiunte ex novo. Allestite al galoppo da giornalisti e tipografi richiamati telefonicamente in servizio o spediti sul posto per «dettare da fuori» agli stenografi. Ma ora regna la tv, che ha già ucciso i quotidiani del pomeriggio e che deruba continuamente di fatto, per «rendita di posizione», sia d'ogni tipo di primizie che di flussi pubblicitari quelli che continuano a uscire al mattino. E i giornali di carta, sempre più stretti da ciò, hanno una sola via d'uscita davanti a sè: fuggire dalle tipografie verso la libertà dell'etere (oltretutto diminuendo costi); informare ad aggiornamento continuo senza più le gabbie dell'appuntamento orario, cui sono forzatamente fermi anche i Tg; adottare insomma - dopo averli imparati - linguaggi multimediali; fonderli, innovarli; affilarli. Raggiungere i lettori in casa attraverso gli schermi sempre più onnipresenti dei computer e conquistare magari, con audace golpe, quegli altri schermi che la televisione ha insediato in ogni tinello, salotto, stanza da letto.

Questo è il futuro a breve, e ce ne è stato appena sottoposto, se non ancora un trailer, almeno una schematica prefigurazione. L'arcangelo dell'annunciazione deve ancora arrivare ma già i profeti descrivono quel che, coi loro occhi più aguzzi degli altri, stanno fin d'ora vedendo. Sarà solo una pittoresca immagine, questa, ma ineludibile sostanza ne è che il futuro è già pronto. Meno carta (quotidiani di 64 pagine a copia, andiamo...), cioè meno cellulosa profusa a tonnellate nelle edicole, vuol anche dire freno alla strage delle aree boschive e incentivo alla respirabilità atmosferica. Ma non la inquinano anche gli eccessi di elettromagnetismo? Eh, sì: occorrerà in seguito por mente a impedire anche quelli. Neanche le ubriacature cellulari fanno bene all'etere, infatti, e occorrerà che regolamentate autostrade informative sostituiscano quei fitti e futilissimi reticolati di viottoli che attualmente lo soffocano. Molte rivoluzioni sono state utopìa, prima di essere attuate e si può ben mettere nel numero anche questa.

Tutto quanto sopra trova centro, e motivo non divagante, dalla sottolineazione di qualcosa che s'è verificata in un particolare àmbito a causa un particolare evento avvenuto il 24 gennaio 2003 poco dopo le otto del mattino. Ma una cosa mi preme ancora di annotare, prima di concludere, dato che all'inizio ho nominato, a un proposito minimale, Enrico Mattei accanto a Giovanni Agnelli. Perché non vorrei ci fosse confusione fra questi due grandi capitani d'industria italiani che ebbero entrambi nel dopoguerra eccezionale fama internazionale prodotta dalle loro (diverse) qualità. Se l'economia nazionale ha due facce, essi non stanno sulla stessa ma ne occupano una ciascuno, in modo completamente diverso, e in gran parte anche opposto, incise. Agnelli se la trovò già bell'e fatta da suo nonno e ricostruita da Valletta, la sua Fiat. Mattei lo creò da niente, l'Eni, e lo impose con vantaggio italiano in tre continenti mentre un quarto lo ostacolava. Agnelli imparò metodi e strategìe oltreoceano nelle università dei Wasp, Mattei dalla esperienza combattente di capo partigiano di modeste origini. Agnelli usò risorse economiche procurate da lobbies e attinte dallo Stato, Mattei allo Stato risorse economiche ne procurò e tante. Agnelli fu un superdiplomatico tessitore di morbide alleanze, Mattei si gettò a testa bassa e da vincente contro uno dei maggiori "cartelli" internazionali, quello petrolifero, facendo prevalere cointeressenze produttrici sulla legge del massimo profitto. E infatti, mentre la morte è arrivata ad Agnelli per aggressione da un fisico male interno, a Mattei giunse da violenta proditorietà esterna. Una cosa in comune: erano tutti e due tremendamente pragmatici. E il mondo politico nostrano l'hanno sempre dominato senza mai farsene dominare. (Aggiungiamo anche il dato che entrambi hanno lasciato successori incapaci). Tra i capitani d'industria che il nostro paese ha annoverato nell'ultimo mezzo secolo solo loro due hanno lasciato un segno così egualmente profondo. Ma anche così tanto diverso uno dall'altro.