Ieri mi sono comprato un grande mappamondo. Era un mio desideriio acuto fin da bambino quello di possederne uno e l'ho esaudito, ma guarda, solo adesso che mi avvìo ad avere 73 anni. Chissà, forse perchè tenere alimentato in sè un desiderio è cosa più appagante che possederne l'oggetto, il quale poi crea senso d'abitudine. Quando m'imbattevo in una di queste sfere montate oblique su un supporto arcuato di largo piedistallo, non resistevo al dovermi avvicinare e farmelo girare, se potevo toccarlo, lentamente col dito sotto gli occhi. (Cos'è il mappamondo se non a sua volta un medium? Di quelli di tipo semplice, come l'orologio, il termometro, il barometro? Che ti dànno informazioni limitate a un campo. Medium di consultazione, come quello, il più massiccio di tutti loro, che è un vocabolario). Adesso questo giuochino lo posso fare quando voglio a casa mia, dove troneggia. Non occorre più che quando ne ho bisogno tiri giù dallo scaffale il pesante atlante e lo vada sfogliando in cerca. Senza poter comparare a semplice vista collocazioni, rapporti, distanze. Basta invece, con quello, un tòcco dell'indice ed esso docile ruota, mostrandomi panoramicamente tutto. Probabilità dice che questa mia improvvisa decisione sia provenuta dalla spontanea induzione datami in questi ultimi giorni da quotidiani e tv e dall'insistente ricorrere in essi di tre nomi: Bush, Iraq, Onu.

E' interessante per me adesso aver sempre sott'occhio, nel soggiorno, quel pezzo di mondo del quale per ora si parla di più, e poterlo osservare in relazione ai contesti. Il diametro della Terra, si sa, è di 40.000 chilometri, ma ora ce l'ho comodamente ridotto, e proprio davanti, a un metro e ventisei. Baghdad dista da Roma 8 centimetri su quel globo e dunque 2.800 chilometri nella realtà, un migliaio di chilometri in più di quanti ce ne sono, nel nostro lungo Paese, fra Palermo e Trieste. Da Washington invece la dividono 29 centrimetri di scala, pari a 10.150 chilometri fisici. Una differenza immensa, fra praticamente la nostra mediterranea area di casa (solo un angolo di Siria separa l'Iraq da questo mare) e l'Oltreoceano. Il Senato Accademico del nostro Ateneo ha giorni fa diffuso un documento, approvato all'unanimità, in cui si auspica, accompagnando l'appello del capo dello Stato Ciampi, il mantenimento della pace e il rispetto delle Nazioni Unite, e si ricorda come la Costituzione della nostra Repubblica ripudii esplicitamente lo strumento «guerra»; che, con voce vibrata per quanto fisicamente può, un mai così duramente ammonente papa Wojtyla aveva definito giorni fa dal suo balcone aperto su una Piazza San Pietro gremita «cosa di Satana». A questi enunciati mi sento di aggiungere qui qualche annotazione io.

Gli Stati Uniti vogliono muovere, a giorni e magari anche fra ventiquattr'ore, guerra a un Paese che si chiama Iraq e che essi definiscono Sede del Male. E questo senza il consenso di quell'Organizzazione delle Nazioni Unite di cui sono cofondatori e coautori del suo statuto. La prima motivazione è che in questo Paese, per la verità tanto ricco (petrolio) quanto tirannicamente e senz'ombra di civiltà politica governato, si annidano protette cellule di terrorismo aggressivo. Le cui manifestazioni previlegiate sono quelle che tingono continuamente di sangue Israele (la quale a sua volta non risparmia sangue ai palestinesi) e che hanno privato, anche con ecatombe umana, New York dei suoi due grattacieli maggiori. E questo è vero. Senonché queste cellule non sono solo in Iraq: sono dappertutto - e ben collegate fra loro - in Medio Oriente, Asia minore, Pakistan, Nordafrica, con diramazione anche nel Sudest europeo, che non ha limite nel Bosforo. Perché si tratta di tutta la mondiale area islamica.

Massacrare l'Iraq con un'armata terrestre, aerea e navale quale non s'era più vista allestire e stare in campo dal 1945 e dotata per giunta d'ogni più recente sofisticazione tecnologica, non è dunque risolvente per nulla. Il nemico, in questa fattispecie, non sono infatti nazioni, o addirittura una nazione sola, bensì una rete armata, ideologizzata, ampiamente diffusa, convinta di quel che fa, intrisa di religione e patriottismi contigui fino al sacrificio kamikaze, e di solidarietà religiose e politiche molto godente. Si tratta quindi di qualcosa che rischia di far contrapporre Islam e resto del mondo come nel lontano Medioevo. E che potrà aver fine (solo che di ciò non ve n'é nelle grandi potenze economiche intenzione alcuna) solo quando fossero pattuite indipendenze oggi negate, sovranità non concesse o soppresse o contestate, e i confini nazionali di quella parte del mondo che da lì arriva fino in Russia e all'India fossero ridisegnati in maniera da corrispondere non più a piani di profitto e di potere ma alla realtà effettiva delle etnìe e delle popolazioni. Altre sono dunque, dovrebbe esser chiaro, le strade consapevoli ed intelligenti da seguire. Una guerra così può solo peggiorare di molto il problema, così come vendicare con cultura western e viscere texane le Twin Towers può soltanto produrre catastrofi ricadenti pure su popoli che non c'entrano, coinvolgendo civili innocenti d'indifferente sesso ed età, colpevoli unicamente d'esser nati in un posto invece che in un altro, sì da abbuiare tragicamente molti decenni avvenire.

Ma la Casa Bianca non ha solo quest'argomento, così facilmente visto invalidato: Ne ha altri due: Saddam è un dittatore e va abbattuto in nome della democrazia; Saddam dispone di armi chimiche capaci di distruzioni di massa e bisogna impedire preventivamente e con la forza che le usi. Con la stessa facilità, però, smontabili entrambi. Dittatori alla Saddam l'America ne ha e ne ha avuti tanti nella sua proprio contigua America Latina, solo che alcuni è appunto lei ad averceli, per proprio interesse, insediati e coperti. Anzi è probabile le sia invece antipatico un plebiscitato come Lula. E un dittatore alla Saddam, e di lui anche certamente più pericoloso perché latra aggressivamente e l'atomica lui sì che ce l'ha già, è quel Kim-il-Sung II° , despota nordcoreano contro il quale, insomma, l'atto più vistoso dagli Stati Uniti compiuto finora è l'ultimo film di 007 Bond. Dunque non si tratta di questo. Le armi chimiche, allora? Bisogna muovere guerra preventiva a coloro che dispongono di queste? Certo, Saddam le ha fabbricate. Ma altrettanto certamente, e prima di lui, l'han fatto gli Stati Uniti: si può mai pensare che ne siano privi se persino la Russia le possiede, come ha dimostrato usandole quando Putin se ne servì per uccidere a Mosca un commando di una ventina di incursori ceceni, per metà donne vedove di caduti nella repressione russa sulla loro terra, insieme a un centinaio di loro ostaggi che erano innocenti cittadini moscoviti? Qui non si discute, naturalmente, ragione o torto, qui si afferma che quest'argomento non vale solo contro chi governa l'Iraq. E dunque non si tratta neanche di questo.

E di cosa si tratta allora? Facciamolo girare, il mappamondo. E guardiamolo, l'Iraq com'è messo, fra Arabia Saudita e Iran, e al centro di una corona di Stati grandi e piccoli che si chiamano Siria, Yemen, Oman, Dubai, Emirati vari, tutti islamici, tutti produttori di petrolio, tutti non certamente a regime democratico, tutti certamente con cellule nascoste di Al Qaeeda presenti sul loro territorio (Bin Laden è saudita, no?). E immaginiamo il "dopo" di questa guerra, con un governatore americano collocato lì a tempo indeterminato e disponente di una eccezionale forza armata. Proprio lì dietro c'è anche l'Afghanistan, dove un governo "americano" c'è già. La guerra avrà intanto già di per se stessa provocato solidarietà islamiche rafforzate e nuove catene di ritorsivi attentati. Bene, che lo stabilire un potere e un controllo Usa su tutta quell'area, e in modo permanente, con le buone o con le cattive, sia solo una tentazione oppure già un programma questo lo potranno dire solo i fatti prossimi venturi, ma certe strategie poi contengono comunque in sè delle spinte automatiche. L'Europa fu colonialista nei due secoli scorsi, ora potrebbe essere la volta di un altro colonialismo (che peraltro, anche se sotto specie economica e non militare, è già in atto), partente da un continente diverso. Cosa c'è poi in tutto questo che fa spada di Damocle sul pianeta? L'incubo atomico. Noi lo conosciamo già sia sotto la specie militare che quella incidentale. I nomi sono Hiroshima/Nagasaki e Cernobyl e fanno accaponare la pelle. Quando ci si siede a un tavolo da poker non si sa mai fin dove, nello scaldarsi della partita, si alzeranno le poste. Quindi occhio a questo tavoliere, stavolta molto, troppo, vicino a noi. E per il quale, informano le agenzie, il Pentagono ha già ordinato a una ditta specializzata centomila bare di plastica di quelle floscie, con lo zip. Cifra che da sola le dice bastanti, a occhio, anche per più di una guerra sola.

E dopo il particolare macabro, uno grottesco. Sotto il controllo degli ispettori dell'Onu, da un paio di settimane l'Iraq, ottemperando alle condizioni imposte dall'organizzazione internazionale, sta smantellando sei /otto dei suoi supermissili al giorno (di più non ce la si fa perché è, per sicurezza, la stessa e sola squadra di specialisti delle Nazioni Uniti a provvedere). Così gli Usa, determinati in tutta ufficialtà ad attaccare lo stesso, si troveranno la comodità di trovarlo un tantino più disarmato. E chissà se forse anche per questo - oltre che per avere il tempo di trattare aiuti economici con quel paio di Paesi africani poveri presenti nel Consiglio di Sicurezza i quali, anche se non basterebbero a portarla a maggioranza, potrebbero comunque votare la risoluzione autorizzante guerra - che hanno concesso la famosa dilazione di dieci giorni. Dando insieme a Saddam quel termine per lasciare il potere (cosa che farebbe bene a fare, intendiamoci, ma che è improbabile). Dieci giorni, a conti fatti, sono altri sessanta o settanta supermissili in meno da fronteggiare, oltre ai circa altrettanti già smantellati. Avebbe potuto inventarlo Chaplin, un gag così.

Penso che per quello che l'Università è e rappresenta abbia dei doveri che vanno anche al di là della semplice didattica. E in ciò sta il motivo della scelta di questo tema per la rubrica di questa settimana. E' a Padova che io ho studiato, e ricordo sempre la grande anima di Concetto Marchesi che ho fatto in tempo ad avere come maestro di letteratura latina un solo anno prima che andasse in pensione. Marchesi, da Rettore, aveva concluso la prolusione di apertura dell'anno accademico 1944-45 esortando gli studenti a sospendere gli studi e darsi alla macchia per unirsi alle unità partigiane che resistevano ai nazifascisti. Poi era sceso dallo scanno, si era sfilato l'ermellino ed era uscito da una porta secondaria diventando da quel momento clandestino egli stesso. A Liberazione compiuta ricomparve in cattedra, fra gli applausi, avendo guadagnato a quell'Università una medaglia d'oro al valore. Quella volta si chiamava Resistenza, adesso si chiama Pace, ma il concetto che i gesti chiamano a perseguire è esattamente lo stesso.