Fra di loro si chiamano film-makers, anzi nella fattispecie più precisamente shortmakers, ma l'altra sera ho sentito vagire, in un loro raduno, il neologismo «cortometristi»; che non sarà certo semioticamente una bellezza ma che una tantum ci consente di non appiattirci sempre su un termine inglese, e anzi ad opporvi ribellione. Bisogna essere grati a persone che, come Maddalena Mayneri e Chiara Omero a Trieste o Sergio Rubino a Palermo, producono film di un quarto d'ora ed organizzano dei Festival dedicati a questo tipo di cinematografia che mi rifiuto di considerare "minore". A Trieste si è appena concluso con gran successo di partecipazione e di pubblico «Maremetraggio 2003», per la quarta volta appassionatamente allestito dalle due belle e intraprendenti signore che ho detto, e in gennaio ce ne sarà un altro a Palermo, dovuto all'altrettanto appassionata iniziativa del giovane Rubino. Anche se meno noto del primo, sarà in questo caso solo un bis ma con l'intenzione di darsi anch'esso cadenza annuale, intestata premiantemente al critico Vittorio Albano recentemente scomparso dopo avere dedicato al cinema una vita. Ma è di Maremetraggio che voglio occuparmi oggi, dopo avervi svolto per sette sere puntuale compito di giurato, e prendendo questa manifestazione, la quale davvero lo merita, come opportuno spunto d'un discorso più vasto e congeniale alle tematiche di questa rubrica.

Il cinema è stato per diversi decenni il medium principe, fra quelli non dedicati alle news ma all'intrattenimento e alla cultura. Ha sormontato come abitudine il libro ed il teatro presso fasce sociali larghissime, e l'ha fatto in parte con prevalenza giusta, di suggestione e di frutto, e in parte però, e a livello inferiore, decisamente anche troppo. Ciò è potuto avvenire perché i media basati su palcoscenico o su schermo sono portatori di un plus rispetto al romanzo: noi lo sappiamo infatti che l'Innominato o Emma Bovary sono costruiti canalizzando per penna ed inchiostro la genialità di Manzoni e di Flaubert, ma quando da lettori passiamo ad essere spettatori noi, invece, oltre a farci solo prendere da Lady Machbet o da Ninotschka sappiamo che lo sono al momento davvero diventate, ma sappiamo anche che quelle datrici d'emozioni si chiamano in realtà Sarah Bernhardt e Greta Garbo e aggiungono dunque a quello per gli autori un apprezzamento loro riservato in sè. E l'approvvigionamento interiore che così il nostro sentire ne ricava risulta duplicato, e alla fine più ricco. (Non così, per dire, con Gary Cooper o Errol Flynn - che restano fenomeni di costume - o, fatte le debite proporzioni, Totò; i quali sono sempre stati, film per film o in palcoscenico, sempre e solo, anzi esclusivamente, se stessi. Riconoscibili icone non variabili e proprio per questo procreanti fans; dunque altra cosa).

Quale espressività propria e quanta catturante forza abbia in sè il cinema non è dimostrato solo dal suo aver trasferito nella storia propri specifici artisti che continuano a brillarvi pure post mortem da giganti, come Charlie Chaplin o Stanley Kubrick . Ma è anche una costatazione del suo potere quella che non c'è grande opera della letteratura mondiale la quale non sia, una volta o l'altra o anche più volte, divenuta un film e molto spesso un film di successo. Quante differenti sembianze potevano avere, leggendone, Anna Karenina o Rossella O'Hara nella fantasia di ciascuno che ne ripercorresse pagina dopo pagina la storia? E ora ne hanno una sola, per automatismo e indelebilmente sovrimpressavi, che consiste univocamente nel volto di Vivien Leigh. E' stata la televisione ad avere spinto il cinema di lato a gomitate pressanti. Prima, a teatro, dovevi andarci tu stesso e magari spostandoti di città, per prenotato appuntamento d'una volta sola. Poi è stato il cinema a venire a trovarti, dovunque tu abitassi, lui, e con la possibilità per giunta, appena dissolta la scritta «The End», di ricominciare daccapo cinque minuti dopo. E adesso è la tv a usare ad esso lo stesso spiazzante trattamento, inseguendoti implacabilmente fino nel tinello di casa tua e persino in camera da letto. Non ci fosse stata ormai Lei dominante, anche le avventure del commissario Montalbano di Andrea Cammilleri sarebbero diventate con certezza assoluta un film e non un serial televisivo. Dice, ma sempre cinema è: si chiama fiction invece di film ma il linguaggio che parla, i codici che gli conosciamo, sono quelli. E invece no: il cinema è socializzante, significa file di poltrone in una pubblica sala; e la tv è per te, tua moglie e i tuoi suoceri, o per un gruppo di quattro amici. Pare più comoda, ma invece induce, se non a solitudine, a ristrettezza di circuiti umani: il «villaggio globale» è davvero molto più piccolo che se fosse rimasto articolato in tanti villaggi; non scherziamoci troppo, su questo apparente paradosso.

Quanto dura una normale opera cinematografica? Un'oretta e mezza, qualche volta due (meno di una tragedia di Shakespeare, di un dramma di Miller, di una commedia di Goldoni, ma solo perché il cinema comprime i tempi), un kolossal anche tre. Il cortometraggio solo una ventina di minuti, ma anche dieci, ma anche meno. Ne ho visto uno, bellissimo, di 90 secondi. Perché allora è così importante? Oh, i motivi sono più d'uno. Intanto il cinema è proprio nato "corto", e i primi nomi della sua storia sono appunto Lumière, Méliés, Charlot. Poi, con l'etichetta di «documentario», ha addirittura imperversato e nelle sale cinematografiche la loro proiezione è stata per lungo tempo obbligatoria. Ma, dopo ancora, da queste hanno finito per scacciarli gli spot pubblicitari. Adesso il "corto" è da una decina d'anni in revival: manifestazioni apposite, rassegne specializzate, festival; e, anche, grandi firme. Nel suo apparente piccolo segue la sorte, e i percorsi di sopravvivenza e salvezza, dei film "lunghi", e forse ha pure più chances, più frecce al suo arco. Le sale cinematografiche, che hanno subito il bombardamento televisivo fino a a ridursi di numero e a spopolarsi, hanno visto le pizze di pellicola trasformarsi prima in videocassette di nastro magnetico e poi in dischi DVD per finire dentro i driver dei nostri apparecchi televisivi e dei nostri computer di casa. E il "corto" non viene solo rifugiandosi ma anche a trovar rivincita in tv, medium nel quale anzi incontra un suo spazio divenuto assai più naturale che nei cinematografi. E un gradimento dovuto alle sue stesse dimensioni, che possono sia occupare un interstizio sia costituire grappolo spettacolare in proprio; o diventare appuntamento di palinsesto. Tenendo per lo più presente che per il "corto" è già più frequente che per il "lungo" essere girato con le tecniche digitali; più semplici, più veloci, più ricche d'ogni possibile tipo di effetti. E di essere agibile dunque anche come videoclip.

Ma oltre a questi motivi ce n'è uno che non è né tecnico né sociologico, ma che è ciononostante il più valido di tutti. E' cioè proprio di natura artistica e culturale. Diciamolo con le parole di un regista italiano che, fra i molti suoi colleghi importanti che pure l'han fatto, di "corti" ne ha girati davvero tantissimi, Mario Monicelli: «Dal punto di vista estetico non esiste nessuna differenza tra corto e lungometraggio. Il corto è soltanto una forma di narrazione più breve, però in grado di elaborare e approfondire la psicologia dei personaggi, il linguaggio, la tecnica, con una completezza non minore del film lungo. In parallelismo con la coppia racconto-romanzo in letteratura. Le “Novelle per un anno“ di Pirandello non sono di valore inferiore ai romanzi pirandelliani: anzi...». Stanno in un'intervista che ho pescato da un libretto - titolo che è quasi un logo di battaglia: «Fronte del corto» - uscito qualche anno fa, pure esso per lo zampino del poliedrico duo Mayneri/Omero, e direi che tagliano la testa al toro. Quanti "lunghi", poi, composti di singoli episodi diversi, cioè di tanti "corti", sono stati fatti? Li abbiamo visti con Sordi, Gassman, Tognazzi, Verdone... E vi si sono dedicate firme egregie come Scola e Risi.

Il "corto" insomma, mi pare giusto io aggiunga a questo punto, e in modo sottolineante, di mio, può consistere in tutto, e anche in tutto quel che non può assolutamente essere, o essere più, requisito possibile di un "lungo". A differenza di questo, infatti, un "corto" può anche essere di nuovo in bianco e nero (ci si è mai chiesti perché anche i più grandi fotografi odierni preferiscono non usare il colore?), può addirittura essere muto o recare un sonoro di sola musica; può raccontare una storia ma anche essere astratto, fatto cioè di sequenze grafiche e di fluidità cromatiche; può essere composto solo di nature morte e di paesaggi o di una serie indagante di facce smorfiate in primo piano; può aiutarsi con illustrazioni o tecniche da cartoon nel documentare un fenomeno, può usare solo effetti per spiegarvi sia un evento di cronaca che una storiella inventata per farvi ridere, o una favola. E del resto non ci sono solo le novelle a poter essere composte con le lettere dell'alfabeto, ma anche le poesie, no?

Maremetraggio, abbiamo detto, è alla sua quarta edizione, ma è più vecchio di così. Discende da Cortinametraggio, che la Mayneri aveva inventato nel '96, e ora è una delle manifestazioni più importanti dell'estate triestina (fuori concorso, naturalmente, anche una delle produzioni sue). Vi convengono registi e attori di primo piano, ma anche giovanissime promesse e coraggiosi sperimentatori; otto serate mai scese sotto il migliaio di spettatori e una fama insorgente di Oscar del settore ai suoi premi. La caratteristica di quest'anno è consistita pure in due innovazioni. La presentazione separata anche di alcuni bei "lunghi" freschi, cioè appena girati da autori italiani prima sperimentatisi appunto nel "corto", di cui è stata proiettata pure l'antica manciata di minuti della loro prima performance, svolta appunto in questo particolare campo e già rivelatrice di qualità. In interessante confronto, cioè, tra promessa fatta e promessa mantenuta. E la premiazione di prodotti, scelti fra un centinaio, allestiti come prova in sede didattica da studenti delle medie superiori. Sono infatti sempre più gli istituti che acquistano attrezzature di ripresa e di montaggio a disposizione degli alunni perché ne possano fare pratica didattica. Ed è il momento, aggiungo io, che ci pensino anche le Università, dacché hanno inserito pure Storia e Tecnica del Cinema nei loro piani di studio umanistici, disciplina che non può continuare solo a consistere in lezioni orali e proiezione di pellicole.

Lo stemma araldico di Maremetraggio è un delfino. Quello di Cortinametraggio era un pesciolino rosso. Nella sua attuale versione movie scorre una pellicola, da quattro dei cui fotogrammi di delfini azzurri ne sgusciano altrettanti e si collocano in movimentato girotondo testa-coda-testa, finchè al centro di questa cornice da loro composta viene a prender posizione quel pesciolino rosso lì, poi sostituito da uno più grande il quale ne entra e ne esce una volta da un lato e una dall'altro. Insomma è un discorso, il discorso fermentante di un'idea che cammina proponendosi come instancabile. E anche il luglio prossimo - ci stanno pensando già fin d'ora - il mare di Trieste si misurerà a metraggi. E in gennaio quello di Palermo, e in tante altre città ancora. Tantissimi auguri allora, Corto, sempre più strumento di comunicazione, sempre più conquistante spazio. Su schermo, in Tv, nel computer, ma essendo sempre prima di tutto Cinema; e anche alla grande assai.