E' pervenuta all'autore di questa settimanale rubrica la seguente lettera. «Colore, vero problema! Abbiamo letto per caso, la sua pagina in ateneo on-line. Non riusciamo a seguirla pur avendola attenzionata con singolare curiosità. Qual è il suo "falso problema"? Non riusciamo a comprendere la sequenza logica dei contenuti e l'obiettivo strategico della sua pagina. Ci aiuti a seguirla nella sua dialettica di comunicazione formativa! Pensiamo che il dibattito culturale potrebbe essere propositivo, tecnico pragmatico e di qualità se si utilizzasse lo stesso codice linguistico. Saluti e buone vacanze. - ArchiKromie». La lettera è firmata dall'architetto che questo soggetto presiede. E' una signora e non un signore ed è probabilmente anche per questo che tale documento ha un andante spiritoso e non acidamente burbero come avrebbe potuto essere. Dedicherò la rubrica presente a darle, magari non su tutto, ragione.

Perché è davvero sì, come viene in essa affermato, una questione di codici linguistici. La fonte burocratica che ha generato qualche anno fa il verbo «attenzionare», sia all'infinito che nella forma di participio qui usata, mi dà sempre il caratteristico brivido che producono tutti gli oggetti alieni. La sua diffusione ha del fulmineo, se è arrivata ad àmbito intellettuale colto prima ancora di essere registrata dai vocabolari («ottimizzare» ha una trentina d'anni ma è rimasto chiuso in àmbito aziendale per il maggior tempo della sua vita prima di essere storicizzato fra gli esempi di neo-lingua nel recentissimo monumentale «Dizionario dell'uso» di De Mauro). Così come appartiene a codice diverso dal mio la locuzione interrogativa di «obiettivo strategico» applicata ai propositi che quella mia pagina avrebbe avuti. Ma quale strategìa inespressa si può sospettosamente attribuire a un discorso che lì comincia e lì finisce, e i cui contenuti non hanno sequenze logiche obbligatorie quando consistono in una serie di esempi appositamente forniti in ordine sparso una volta che sono inquadrati da un'affermazione precisa? E anche l'idea che un «dibattito culturale» possa essere «pragmatico» mi appare vistoso esempio di costituire uno stridente ossimoro tra un confronto intellettualmente aperto ed una concezione empiricamente utilitaristica. Insomma, i codici linguistici sono davvero importanti e laddove non siano condivisi - perché non si dovrebbe ammettere l'ovvio? - capirsi diventa sul serio difficile.

Vediamo comunque (mi faccio prestare un po' di filo da Arianna) se ArchiKromie mi segue adesso. Cosa dicevo in quella mia rubrica? Essa cominciava con l'affermare preoccupazione per un progetto regionale lautamente finanziato il quale dovrebbe regolamentare l'aspetto cromatico delle strutture edificate sia sotto il profilo urbanistico che paesistico che restaurativo dando voce in capitolo, in sede di elaborazione, a istituzioni politiche ed amministrative, anche professionali, ma non a chi avrebbe maggior qualifica interveniente e cioè alle Sovrintendenze, troppo spesso scavalcate nelle loro competenze. E proprio com'era cominciata finiva, esprimendo un parere: meglio allora spenderli diversamente, quei soldi, e non stabilire un metodo così pericoloso (e anche un pochino ridicolo) come quello di promulgare, area per area, delle tabelle dei colori ammessi e di quelli da respingere. Fra questo inizio e questa fine, nella mia ingenuità ritenuti abbastanza chiari, e costituenti con semplicità l'osso della questione, avevo disseminato una serie di osservazioni ed esemplificazioni variegatissime sul concetto di colore con riferimento alla comunità. E ciò era tanto poco dissimulante chissà quali intenti strategici ritenuti occulti, da limitarsi per il resto a riferire che in merito era in corso una polemica fra due diversi nuclei combattentisi in ordine alla gestione di questo programma, ma senza neanche volerne riferirne i termini; e ad affermare invece delle mie personalissime opinioni in materia (magari imperfette, per carità, ma legittime) non coincidenti con il pensiero di nessuno dei contendenti in campo. Se le idee sono queste meglio non farne niente - questo dicevo in sostanza - può essere considerata affermazione saggia o banale, rinunciataria o incompetente, ma certo incomprensibile no. Constato del resto con piacere come anche il soggetto che mi agita il ditino in quella lettera non dico si chiami fuori ma neanche prenda in detta sede campo fra l'uno e l'altro dei polemizzanti.

Dai tanti esempi europei di cromatismo urbano in quell'occasione da me esposti, ed occupanti tutta la parte centrale della rubrica, una cosa sostanzialmente credo emerga in modo univoco, e non capisco (sì, stavolta non capisco io) come possa dispiacere o crear dubbi a degli architetti, cioè a dei creativi per definizione. Che ci possa cioè essere in un contesto urbano un'omogeneità stilistica ma anche un'eccezione dirompente; che la comunità manifesta anche attraverso facciate e finestre un proprio ésprit, ma che ne possono far parte anche delle dissonanze; che non va respinta nessuna funzionale innovazione rispetto ai materiali: si può usare acciaio a vista per un condominio e vetrocemento per una cattedrale; che occorre insomma affidarsi a una cultura collettiva ove ci sia e alla capacità estetica del singolo progettista, che dovrebbe essere un presupposto. Una cosa (necessaria) sono i piani regolatori e i regolamenti di sicurezza, le cubature massime e il rispetto del verde, e un'altra le decretazioni che riguardino, includendo o escludendo, le risorse cromatiche o impartiscano, che so, limiti dimensionali o forme geometriche alle finestrature. Quel che a una lettura, specie se «attenzionata» (mi scuso per il ripetere quest'orrendo termine) si evidenzia può essere solo questo, e non il suo contrario od una terza cosa. E dunque che il problema di regolamentare rossicci, bluazzi e giallini è un problema falso che più falso non si può. Il problema vero è che ci sia un'inventiva libera ed autonoma sul piano che colpisce l'occhio, sul piano del gusto. Persino la Palermo Ovest dei Ciancimino e dei Vassallo, che pure argini legali avrebbe meritato, esprime un dato di livello culturale: è quello dell'establishment di quel periodo, così sfortunato per questa città che ci ha rimesso i connotati liberty di via Libertà. E' storicizzato, è una testimonianza, ci tocca di tenercela. E di guardarsi dal ricascarci. Vogliamo dire «Ahimè»? Va bene, diciamolo; ma è andata così.

C'è stata una polemica specifica, di recente a Palermo. In occasione dell'essersi allocato all'incrocio Stabile-Settimo (i vecchi "Quattro canti di campagna") un noto marchio di franchising c'è chi ha protestato per la tinta marrone applicata ad uno degli smussi angolari, contrastante con quella più chiara o del tutto bianca degli altri. Anche questa io la considero disputa in cui non entrare: diverso era già per stile il palazzo, né proprio omogenei restano fra loro gli altri tre. Il connotato di quell'incrocio è insomma l'asimmetria. Vorrei che l'introduzione di un "richiamo" cromatico restasse libera anche se questo non direi proprio sia il mio colore preferito, ed eviterei assolutamente che gli architetti e gli autori di décor debbano andare in assessorato a consultare il listino dei colori permessi, prima di progettare qualcosa. Assumerei invece per principio che ne sappiano più loro, singolarmente, di una Giunta o della conferenza in sede legiferante dei capigruppo di Sala d'Ercole o dell'organo che spartisce i fondi di «Agenda Duemila». Certo, tutte le liberalizzazioni comportano dei rischi da correre e, non essendovi stato apposto un «Non si tocca», oggi abbiamo un restauro della Cappella Sistina che ci propone un Michelangelo in Technicolor. Peccato. (Vorrei, per inciso, servisse d'esempio per l'Ultima Cena di Leonardo se l'esperienza, come dovrebbe, qualcosa contasse: un restauro cioè che non tenti più ripristini "al buio" ma fermi lo sbiadimento secolare di quell'opera al punto dov'è arrivato oggi. Impedendogli chimicamente di proseguire e basta. Pareri di profano? Ma certo, poiché in materia indubbiamente lo sono, ma al livello di semplici suggerimenti di generico buonsenso da parte di chi dell'arte usufruisce).

C'è per la verità un passaggio, uno, di quel mio testo che può aver messo a prova l'intelligenza recettrice di qualche "addetto ai lavori", e me ne accorgo adesso che mi son trovato invitato a rileggerlo. Non ho però nessuna remora, ovviamente, a darmene per confesso, in quanto la sua chiave era offerta soltanto per trasparente implicito. E' quello in cui mi riferivo all'anonimato cui spesso soggiace, in giro per l'Italia, l'edilizia residenziale periferica, che ti impedisce di riconoscere persino se in quel momento sei a Roma o a Milano. Riconoscendo tentativo, a monte, di reazione a questo nell'iniziativa del Comune di Torino appunto di un «Piano urbanistico del colore». Ma solo per allarmarmi appunto dell'ipotesi di qualcosa di siculamente analogo. Faccio da gran tempo, insegnando in entrambe le Università, il pendolare fra Trieste dove abito e Palermo dove avevo a lungo risieduto, e lo schizofrenico alternato impatto che costantemente continuo a provare fra due concezioni così distanti della vita, dell'abitare, dell'aver rapporto sociale, resta in me - che volete - fortissimo. Colgo tutte le analogìe, beninteso, e sono tante, fra due realtà entrambe emarginate dallo stereotipo Italia e che un secolo e più fa erano state pure propulsive, ma anche tutte le differenze di rispettivo background che sconsigliano la mano pubblica isolana esca dal proprio seminato impugnando, per esempio, tavolozza.

Mi piacerebbe in conclusione poter dire, ma una volta per tutte e poi mai più, che questa rubrica, giunta con la puntata di oggi al suo ottantesimo numero, non contempla strategìe né se ne fa guidare. Inutile quindi cercarvele o chiedersi quali siano. La strategìa è sempre qualcosa di non detto, un disegno più vasto o un quadro di campo in cui ci si può collocare o no. E il segno di queste scrittture è appunto, in proposito, quello del no. Se c'è un logo che le qualifica è anzi proprio il contrario: quello dell'assoluta estemporaneità. Sono un docente di linguaggio giornalistico e di storia dei media, e di settimana in settimana «Secolo postmoderno» integra, spigolando nell'attualità comunicazionale, e ricavandone impressioni che possono arricchirle non più che di note a margine quello che invece è il pianificatissimo svolgersi delle mie lezioni. Certo che possiede anche una sua vita autonoma, dato che mi accorgo avere per lettori non solo i miei studenti nord-sud di Lettere e di Scienze della Comunicazione, ma va presa per quel che è: non sono certo un anarchico libertario ma neanche un conformista, e nello stimolo della provocazione chi mi segue sa quanto è facile io volutamente incorra. Così come nell'occasione specificamente oggi richiamata.

Ad ogni modo non è stato mica male l'esser stato spinto a tornare su questo argomento che resta di sicuro interessante e attuale, come sempre quando ci sono torte da spartire, e non posso dunque che ringraziarne la gentile architetta che mi ha scritto.